L’attacco di panico è caratterizzato dall’insorgere improvviso di episodi di angoscia intensa che sopravvengono senza alcuna prevedibilità e senza la possibilità di essere bloccati. Si accompagna a forti manifestazioni neurovegetative, quali palpitazioni, tachicardia, vertigine, tremori corporei, diarrea o sudorazione eccessiva e soprattutto sensazione di soffocamento.
E’ possibile, infatti, isolare due momenti progressivi dell’attacco: il primo, in cui l’angoscia è ancora avvertita psichicamente, e il secondo, in cui la partecipazione corporea è prevalente e il terrore diventa angoscia somatica incontrollata.
Nell’attacco di panico è il corpo a parlare della propria morte o, meglio, della propria agonia. Nelle persone che soffrono di attacchi di panico i circuiti neurovegetativi, che connettono la coscienza ai segnali del pericolo, sembrano talmente esaltati da diventare indipendenti da ogni controllo razionale. Il paziente ad un certo livello “sa” che non morirà, ma, nello stesso tempo, perde la capacità di arginare la paura e “crede” di morire.
Una volta comparso, l’attacco di panico tende inesorabilmente a ripetersi.
Chi lo ha subito, lungi dall’essere rassicurato dal fatto di essere sopravvissuto o dal convincersi dall’inconsistenza dei suoi terrori, sembra sempre più incline a farsene catturare. Un elemento molto importante nella preparazione e nello scatenamento dell’attacco è il ruolo giocato dall’immaginazione.
Una delle ragioni del suo ripetersi e aggravarsi è il condizionamento che si stabilisce nella mente tra stimolo, immaginazione e risposta emotiva. La risposta emotiva e neuro-vegetativa è un prodotto dell’immaginazione che concretizza la percezione e la realtà del pericolo di morte. Lo scampato pericolo rafforza paradossalmente il successivo allarme.
E’ comprensibile quindi che la persona colpita da un esperienza cosi drammatica e paurosa inizi ad associare e, di conseguenza, ad evitare la situazione o il luogo in cui l’attacco di panico si è presentato. Ad esempio la persona cercherà di evitare le file al supermercato poiché ha associato l’attacco di panico e l’ansia a questa situazione. In realtà l’evitamento, che può apparire una risposta adattiva e comprensibile nell’immediato, rappresenta la causa più importante della cronicizzazione degli attacchi di panico.
Quasi tutte le persone che hanno avuto un attacco di panico mettono in atto evitamenti e più questi diventano generalizzati, ovvero si estendono a più situazioni rispetto a quella in qui l’attacco di panico si è manifestato, tanto più complesso, in termini di tempo e impegno, sarà la cura. In genere le situazioni maggiormente evitate sono i posti affollati, gli spazi aperti, gli spazi chiusi, i mezzi pubblici e, in generale, i luoghi lontani da casa o dove comunque è difficile chiedere aiuto in caso di attacco di panico.
L’attacco di panico in analisi viene considerato un sintomo di una complessa ma aspecifica sofferenza del sé, espressione del venir meno di alcuni parametri necessari al suo funzionamento.
L’angosciosa sensazione di non comprendersi porta all’accumulo dell’ansia che, nel corso della crisi, si travasa nel corpo e si esprime in un linguaggio viscerale, sottraendosi sempre di più alla possibilità di essere raffigurata psichicamente.
Alcune volte gli attacchi di panico compaiono nel corso di crisi di identità, nei momenti di trasformazione (entrata nell’età adulta, crisi della mezza età) o come reazioni psicosomatiche alla separazione, ma indicano sempre una mancata strutturazione del sé.
Nei casi più semplici l’attacco di panico segue alla caduta di assetti narcisistici. Per questo motivo sono particolarmente frequenti nelle crisi di mezza età (dove il mito della propria efficienza, bellezza o successo non è in grado di sostenere l’angoscia per il limite della propria esistenza) o nelle reazioni all’abbandono dove la separazione dal partner viene sentita come un crollo del sè e delle proprie sicurezze.
L’attacco di panico è l’espressione del fallimento di quelle funzioni inconsce che modulano e monitorizzano lo stato emotivo.
Nelle condizioni di stress non è possibile utilizzare quell’insieme di operazioni inconsapevoli necessarie a trasformare i contenuti emotivi per renderli idonei al funzionamento della vita psichica.
In altre parole si viene a configurare una rottura simile a quella del disturbo post-traumatico da stress in cui la persona, in uno stato di ipervigilanza, cade improvvisamente preda di attacchi di terrore legati associativamente all’episodio traumatico.
L’attacco di panico, ricorrente espressione di sofferenza del sè, ci dice che la membrana protettiva della mente (Freud, 1920) si è lacerata.
Lo scatenamento dei sintomi, che è sostenuto da un continuo rimando dalla psiche al soma e viceversa, si collega a un micro-delirio, limitato nel tempo e nello spazio e legato ad alcuni oggetti, luoghi o pensieri, che origina nell’isolamento e nell’angoscia.
La terapia psicoanalitica, che considera l’attacco di panico conseguenza di un disturbo dell’identità personale e della crisi di assetti difensivi, ha come scopo quello di agire a livello strutturale e non puramente sintomatico.
L’esperienza clinica mi ha convinto che è indispensabile in ogni caso lavorare in seduta sull’attacco di panico, focalizzandolo ogni volta che si manifesta e invitando il paziente a descrivere le sensazioni, percezioni o pensieri che l’hanno preceduto e accompagnato.
In questo modo è possibile cominciare a riconoscere come si formano i sintomi, in quali situazioni più facilmente compaiono e quale é il ruolo dell’immaginazione catastrofica.
Il paziente ha così la possibilità di rivivere in seduta la vicenda traumatica che viene analizzata, condivisa con l’analista e sperimentata in una sequenza potenzialmente pensabile.
Questo tipo di lavoro analitico permette al paziente di prendere atto del proprio contributo al costituirsi dell’attacco e ha il vantaggioso effetto di liberare nuovi spazi ed energie per lo sviluppo del processo analitico.