Nel lavoro psicoanalitico di questi ultimi anni, sempre più spesso ci ritroviamo di fronte a persone che, per tipo di richiesta formulata e per una parte dei disturbi presentati, ci pongono nuovi problemi di trattamento. Sempre più pazienti, presentano una patologia riconducibile ad un di Super-Io sociale che, fattualmente e simaticamente, sembra non permettere un tempo ed uno spazio in sé e per sé.
Oggi, nella società del narcisismo, ognuno finisce coll’esser implicato in un “super-io-fai-da-te”. nel senso di un sociale che non offre più funzioni di contenimento e orientamento (regole e sanzioni corrispondenti) tali da facilitare il formarsi di elementi strutturanti la personalità dei singoli e dei gruppi.
I “nuovi pazienti”, come un po’ genericamente possiamo definirli, ci presentano innanzi tutto uno sfondo comune: la condizione culturale e familiare, potremmo dire l’ambiente di vita.
Si tratta prevalentemente di soggetti giovani, quasi esclusivamente tra i 20 e i 35 anni, con una condizione sociale e familiare sostanzialmente “normale”. Sono bene inseriti, hanno un livello culturale discreto ed una famiglia che, seppur con problemi relazionali, sembra essersi occupata di loro in modo attivo ed assertivo. Nel tempo, la rappresentazione che i pazienti ci forniscono della famiglia e del rapporto con essa, evidenzia alcune specificità.
L’accudimento e il tipo di relazione tra i membri è attivo, presente, ma fortemente concreto: ogni problema va affrontato, “gestito”, per essere risolto, prima ancora che per essere compreso. É come se, alcuni valori o modalità di funzionamento tipici delle organizzazioni produttive, si fossero traslati o imposti nell’ambito del “privato”, trasformando la nuova famiglia in una sorta di impresa. Come in una azienda, il tempo e lo spazio dei sentimenti e delle emozioni, allo stesso modo dei disagi, delle paure e delle difficoltà, non sono rispettati; la loro espressione non è negata, ma subito confrontata o rapportata ad un bisogno di “fare”, di trovare un modo operativo ed “esterno” per farvi fronte.
La famiglia, rispetto al “mondo interno” dei suoi membri, sembra permetterne l’espressibilità e l’uso, solo se immediatamente e meccanicisticamente collegato con quello “esterno” (fattuale, concreto, operazionale). Le emozioni, gli affetti, i sentimenti, più che “com-presi” vanno capiti, spiegati: la razionalità, le razionalizzazioni e le scissioni funzionali ne sono i pilastri. I pazienti ci presenteranno questo come un quadro “normale”, positivo, proponendo o “imponendo” anche a noi un tipo di terapia simile. La sofferenza, il malessere, di cui sono portatori, pur facendosi intravedere in tutta la loro forza, sono come negati, espressi sotto forma di qualcosa che non ha funzionato, qualcosa che non è stato attivato a sufficienza: loro o la famiglia dovevano intervenire di più e allo stesso modo la terapia dovrebbe operare.
Si presentano come persone e famiglie senza storia: hanno fatto o possono fare esperienze significative, ma solo in modo frammentario e momentaneo, o comunque, sembrano non poterle trattenere in sé e per sé. Le evocazioni a cui questi pazienti ci riportano, vanno ai concetti di “holding” e di “contenitore” (D.W.Winnicott, 1971; W.R. Bion, 1962).
Da un lato la patologia e o struttura di questi pazienti sembra presentarsi come grave, dall’altro essi mantengono grosse aree di funzionamento: socialmente risultano ben inseriti, riconosciuti, apparentemente adattati e adeguati. Quest’area di funzionamento compensa e copre tutte le altre; da qui le difficoltà per loro e per noi: vi è un disagio privato che non si esprime nel sociale, ma un malessere sociale (pur non consapevole) che si esprime nel privato, impoverendolo.
Le istanze promosse sono quelle di un Io camaleontico, soprattutto sfaccettato; i riferimenti rimandano ai discorsi di Kernberg (1965) sull’Io grandioso e le patologie narcisistiche e alle descrizioni delle personalità “come sé” proposte da molti autori a cominciare da Deutsch (1930), o ancora, al “falso sé” di Winnicott (1965).
I “nuovi pazienti” ci trasmettono la sensazione che da soli non possono creare le condizioni per fare analisi: la strada da intraprendere è quella di conservare il progetto di fare analisi, stando in una dimensione temporale analitica, modificando il set. In questa prospettiva l’analista si assume un compito fondamentale: distinguere tra set e setting (tra parte strutturale fisica, formale e parte mentale) modificando prevalentemente il primo. A fianco del processo analitico classico, riguardante il rapporto tra conscio ed inconscio o tra Es, Io e Super-Io, occorre aggiungere l’attività interpretativa sulla mancata percezione della realtà sociale del paziente.
Come non ipotizzare che la “famiglia come organizzazione” abbia a che vedere con i tratti “sociali” dei “nuovi pazienti” : come una patologia sovrapposta e intrecciata a quella più specifica e personale quando, nella fase iniziale del trattamento presentano disturbi multiformi, disagi indefinibili e una forte resistenza ad un progetto di trattamento stabile e di lunga durata perché troppo impegnativo. Solo attraverso un accorto e cauto lavoro di dosaggio, tra sofferenza e fretta “sociale” introiettata, la relazione analitica gradualmente potrà strutturarsi e stabilizzarsi.